Disturbo di Panico e Agorafobia

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Gli attacchi di panico si verificano quando una persona valuta erroneamente alcune sensazioni corporee e mentali, di per se innocue, come molto pericolose, cioè come segnali urgenti in merito a improvvise ed inevitabili catastrofi, arrivando a percepire l’imminenza della propria morte, di impazzire o di perdere il controllo. Sebbene l’attacco di panico possa colpire chiunque in qualunque momento, in presenza di certe condizioni particolari (sforzi fisici con accelerazione della frequenza cardiaca, ambienti in cui ci sia un temporaneo calo della concentrazione di ossigeno, particolari segnali autosomici, ecc…), esso è più probabile in persone con un il livello di Anxiety Sensitivity particolarmente alto; per Anxiety Sensitivity si intende la tendenza a spaventarsi di fronte a sensazioni normali legate all’attivazione neurovegetativa e nasce dalla convinzione che queste sensazioni siano dannose. Secondo il modello di Clark (1986), integrato nel 1996 da Salkovskis e nel 1997 dal Wells, l’attacco di panico si genera seguendo un preciso schema, una sequenza di pensieri, emozioni e sensazioni che si organizzano in un circolo vizioso che si sviluppa così: Uno o più stimoli scatenanti, endogeni o ambientali attivano una valutazione rispetto ad una minaccia incombente, tale valutazione induce ansia, la quale acuisce sensazioni fisiche e mentali sempre più forti e disturbanti che inducono una interpretazione catastrofica che scatena il panico che alimenta a sua volta l’ansia e così via. Questa condizione porta la persona a tentare in tutti i modi di evitare tale situazione, il che focalizza ancora di più l’attenzione sulle sensazioni fisiche e mentali interpretate come segnali certi della catastrofe incombente.


Secondo Salkovskis (1996) nelle persone che sviluppano un Disturbo da Attacco di Panico, una volta che l’attacco è già avvenuto una volta, intervengono una serie di fattori che mantengono, auto-alimentano e cronicizzano il disturbo, in particolare comportamenti protettivi di prevenzione della minaccia, evitamento e fuga. Un esempio di comportamento protettivo può essere quello di una persona che, temendo di soffocare per l’affanno che percepisce dopo una corsa, cerca di respirare il più profondamente possibile (comportamento protettivo) per evitare di soffocare (catastrofe temuta) ma così facendo induce l’iperventilazione che aumenta la probabilità di scatenare il panico. Inoltre questo tipo di comportamento impedisce di fare l’esperienza fondamentale che l’affanno, di per se, non può portare in alcun modo al soffocamento, per cui non viene disconfermata la credenza disfunzionale coinvolta nel circolo vizioso del panico. Un esempio di evitamento è rappresentato dalla persona che evita le scale perché il primo attacco di panico, ad esempio l’esperienza di credere di morire per un infarto imminente, è avvenuto quando stava salendo le scale e il suo cuore ha iniziato a battere naturalmente più forte e veloce ma l’interpretazione di tali sensazioni è stata catastrofica. Anche in questo caso tale comportamento di evitamento alimenta la credenza disfunzionale coinvolta nel disturbo. Un esempio di fuga è rappresentato dalla persona che nel momento in cui percepisce sensazioni spiacevoli o l’inizio del panico, abbandona il contesto (ad esempio esce da una sala affollata) evitando così l’esperienza che gli permetterebbe di sperimentare come, in realtà, non succederà nulla di ciò che teme.

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Successivamente Wells (1997) ha sottolineato come l’attenzione selettiva riguardo le sensazioni corporee temute e ciò che può essere ad esse ricondotto, aumenta la probabilità che si scateni il panico per via dell’interpretazione catastrofica di tali segnali. La soglia percettiva si abbassa e molto più frequentemente la persona potrebbe ritrovarsi a pensare ad esempio: “Oddio… mi pare che il cuore stia battendo forte e sento fastidio al braccio… e se mi capitasse come al nonno… si mi pare che avesse avuto sensazioni simili a queste… me lo raccontavano quando ero piccolo…oddio ecco sto per avere un infarto!...” Dal punto di vista nosografico, nel DSM 5 (manuale diagnostico internazionale dei disturbi mentali) i criteri per porre la diagnosi sono presenza di ricorrenti attacchi di panico (almeno due, anche se in genere gli attacchi sono molti di più) definiti come inaspettati, ovvero senza una causalità manifesta e chiara.
Devo essere presenti inoltre almeno 4 dei seguenti sintomi:

  • palpitazioni o tachicardia
  • sudorazione
  • tremori
  • sensazione di fiato corto o di fatica nel respirare
  • sensazione di soffocamento
  • dolore retrosternale
  • nausea o dolori addominali
  • vertigini, sensazione di instabilità, testa leggera o sensazione di svenimento
  • brividi o vampate di calore
  • parestesie (sensazioni di formicolio o di intorpidimento)
  • derealizzazione (sensazioni di irrealtà) o depersonalizzazione (sentirsi separato da se stesso)
  • sensazione di perdita del controllo o di “diventare matto”
  • presenza di intesa paura e preoccupazione, per almeno un mese, che l’esperienza del panico si ripresenti
  • compromissione significativa della qualità di vita del soggetto in ambito personale, professionale, sociale, ecc…

L’intervento CBT (Cognitive Behavioral therapy) specifico per questo disturbo ha dimostrato di essere tra i più efficaci e comprovati in assoluto. Sono previste diverse fasi attraverso le quali si indaga nel dettaglio l’esperienza specifica vissuta dal paziente, cosa è successo esattamente e quando, in quali condizioni, che significato ha avuto per la persona; si delinea poi il profilo interno del disturbo (quali sono gli stati mentali, le credenze, gli scopi che possono aiutare a comprendere il problema), si cerca di individuare cosa impedisce la remissione spontanea dei sintomi, quali meccanismi intervengono a mantenere il problema nel tempo, come eventuali tentativi di soluzione alimentano il problema; si indaga la storia di vita cercando fattori predisponenti ed eventi che hanno reso il paziente più vulnerabile. Successivamente si agisce sugli elementi che generano e mantengono il problema sia con tecniche cognitive che comportamentali.

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